QUELLA CERTA
ETA’
Mi svegliai
alle cinque e mezzo e, appena alzato, rifeci il letto e riordinai la mia
cameretta. Un muro di pietra spesso ottanta centimetri separa la mia stanza da
quella di Margherita e, anche se avessi salutato a schioppettate il sole
nascente, dall’altra parte non si sarebbe udito niente : ciò nonostante io mi
comportai come se fra me e Margherita esistesse una parete di carta velina.
Lo stesso
feci poco dopo quando ebbi raggiunto – in pantofole – il mio bagno personale.
Mi lavai, mi pettinai e mi rivestii nel più assoluto silenzio rinunciando a
radermi per timore che il crepitar della barba sotto il filo del rasoio
turbasse quella sublime pace.
Finita la
mia toletta, ripulii e rimisi in perfetto ordine anche la stanza da bagno e,
sempre camminando in pantofole, scesi in cucina.
Il tè
l’avevo preparato la sera prima di andare a letto, lo bevvi freddo per evitare
lo scatto dell’interruttore del fornello elettrico.
Riordinata
con cura la cucina, risalii al primo piano e raggiunsi il mio studio.
Un muro di
pietra spesso ottanta centimetri, un corridoio indi un altro muro d’ottanta
centimetri mi dividevano dalla stanza di Margherita: avrei potuto, senza
disturbare il sonno della madre dei nostri due numerosi figli, scrivere a
macchina sparando pistolettate sui tasti, ma io non guardai neppure la macchina
e m’insediai delicatamente al tavolo sul quale m’attendevano una matita a mina
morbidissima e il quaderno degli appunti.
Erano le sei
e trentacinque e da quel momento io diventai qualcosa come un mobile del mio
studio. Anzi qualcosa d’ancor più riservato perché nei mobili del mio studio
qualche piccolo tarlo c’è, mentre io ( pur possedendo un sacco di altri
difetti) non ho tarli e nessuno scricchiolio tradisce il traffico interno del
recipiente che da mezzo secolo porto con sufficiente dignità sopra le spalle.
Alle dieci e
trenta la porta del mio studio si spalancò e apparve Margherita: era in
vestaglia e i capelli le ricadevano sulla fronte coprendole il viso dalla punta
del naso in su. Non potevo quindi per evidenti ragioni tecniche vedere i suoi
occhi,però dalla piega amara delle labbra e dal guizzare di alcune vene del
collo compresi che Margherita stava guardandomi con odio.
-
Quando
sa che nella stanza sottostante dorme qualcuno, la persona civile evita di
sbatacchiare sul pavimento sedie, scarpe, comodini e altre sudicerie.
Così disse
con voce dura Margherita, poi aggiunse dopo una breve pausa:
-
Ma
forse tu non sei una persona civile, o forse io non sono qualcuno per te.
Avrei potuto
risponderle. “Margherita, è vero che la mia camera da letto è sopra la tua,
però quella della nostra casa al paesello. Qui siamo lontani duecento
chilometri dal paesello, siamo in un ameno borgo di montagna e, mentre la mia
stanza da letto è a fianco della tua, sopra la tua stanza c’è soltanto il
tetto. Ti par possibile che io salga sul tetto per il bel gusto di sbatacchiare
sopra le tegole comodini, scarpe , sedie e roba del genere?”
Avrei potuto
risponderle così e schiantarla sotto il peso del mio sarcasmo; invece le
risposi semplicemente:
-
Mi
dispiace, Margherita. Non l’ho fatto apposta.